È sempre il teatro popolare – come ci insegna Peter Brook – a salvare la situazione. A seconda delle epoche questo ha assunto forme diverse ma tutte accomunate da un elemento: la “ruvidezza”. Un teatro che non è a teatro, ma ovunque ci sia un attore ed un pubblico ad ascoltarlo. Ovunque ci sia sapore, sudore, rumore, odore.
Il carcere è ruvido.
Il carcere ha un sapore amaro, di sconfitta, di cose perdute, di un futuro che non c’è.
Il carcere fa sudare: si suda per non pensare, si lavora, si va in palestra o si gioca a calcio per eliminare i pensieri col sudore, nell’ora d’aria si sta al sole per sentire il sudore sulla pelle, si cammina compulsivamente, si sceglie di sudare per confondere le lacrime.
Il carcere ha i suoi rumori, quelli della battitura, delle porte automatiche, delle chiavi in mano alle guardie, il rumore del vociare concitato dei colloqui o di un pianto di un figlio che non ti vede da anni.
Il carcere ha un odore forte, di detersivi tristi, di cibo da mensa, di profumi desiderati. E di altri dimenticati: l’odore della primavera, del tuo piatto preferito, della persona che ami, del bucato appena steso.
Il teatro in carcere cambia i rumori, copre gli odori, esalta i sapori.
Pant, pant qualcuno è affaticato perché è la settima volta che riprova la scena. Sgrunt qualcuno sta esprimendo il suo disappunto. Sssssst stiamo provando la scena, non chiacchierate. Tump tump, guarda cammina come se fosse un orco! Click, spegniamo la luce, forse fa più scena. Bang, bang: tranquilli sto solo recitando. Beep, broom, clomp, clunck. Bravi tutti: clap, clap.
Oggi sono arrivati gli abiti di scena. Odore di vecchi bauli, di parrucche, di legno calpestato, di corde tese, di polvere, di sangue, fatica, lacrime e sudore. Di successi lontani.
Il pensiero si allegerisce, sono solo poche ore, ma menomale che ci sono. Il tempo del teatro regala un po’ del tempo perduto. Regala un’altra identità, qualcosa che poteva essere e non è stato. Un’altra possibilità.
Che sapore avrà, adesso, la libertà?