Col passaporto in mano durante uno di questi momenti beckettiani che ci regala Ryanair. Aspettando l’aereo che forse mai arriverà. Quindi comincio a guardare le stampelle dei viaggi fatti fin ora.
MIGRACIÓN URUGUAY. 12 FEB 2014
E lì ci trovo in certo senso una parabola quasi perfetta, anzi, quasi imperfetta per una esperienza nel teatro come questa o qualsiasi altra.
Ritornando dall’Uruguay. Una nave. Il viaggio dall’Argentina l’avevo già fatto giorni prima colla stessa compagnia: Cronaca di un’assurdo annunciato. La nave parte con ritardo fra onde smisurate, si muove come se fosse un’attrazione di un Luna Park. Ma dopo dieci minuti le risate iniziali per lo sbilanciamento no si sentono più. La nave sembra fuori controllo e le facce diventano più gialle. Così bravo è il mare che di un colpo si apre una delle porte e, come in uno sketch di clownerie, casca tutta una onda di acqua sopra di me. Uno dei motori si rompe e la nave rimane a metà strada tra i due porti. Durante cinquanta minuti rimaniamo fermi -beh, fermi forse non sarebbe la parola giusta, con questo temporale- nel Río de la Plata, col panico che ha arrivato a quasi tutti. Anche a qualcuno del personale della nave. I vomiti sono protagonisti nel 90% dei assistenti. Ma io, non perché sia più bravo, ma anzi: perché normalmente sono già paranoico e nevrotico, rimango un po teso ma anche abbastanza calmo. Scherzo, aiuto moralmente alla gente dicendo che tutto andrà bene. Io sono tranquillo in situazioni limiti, sono una buona compagnia in questi momenti. Più che altro perché è quasi una vincita morale, un ‘ve lo dicevo: qualche giorno doveva succedere qualcosa di terribile’, e il fatto di finalmente avere ragione e gli altri no mi fa riuscire ad avere un punto zen assolutamente fastidioso.
Comunque la nave, non si sa come, dopo un po ritorna al porto di Colonia del Sacramento. La gente scende nervosa dalla nave e piano piano le sue facce passano dal giallobianco al giallorosso, ma non per farmi sentire più a casa con i colori spagnoli o catalani, ma presti per fare uscire tutta l’ira del mondo. Io aiuto tranquillamente a una signora incinta ad uscire dalla nave, scherzando e pregandola di chiamare al futuro bimbo col nome di Pablo. Non riesco a convincerla però già in terra ferma comincio a fumare una cinquantina di sigarette per compensare la tensione delle scene precedenti -forse potrebbe essere stato l’ultima ora di vita mia e non avrei ingollato tutta la nicotina necessaria per andare in cielo.
E in questo momento accade la scena. La scena vera. Una truppe di argentini, cileni e uruguaiani cominciano a circondare il personale della compagnia, Colonia Express (anche conosciuta come Colonia Stress) per il disastro provocato.
Cioè: argentini, cileni ed uruguaiani. Forse tre delle nazioni del mondo dove si parla di più in questo mondo. Culture con influenza hispano italiana diretta, per cui la verborrea dialettica è ancora più grave.
Cioè: due ore e mezza di scenette a un personale che ovviamente non è responsabile di niente, forse della indulgenza informativa, ma che sono i unici che mostrano la faccia e ci parlano. Il capo è a Buenos Aires, calmo, con un buon brandy e anche forse con una buona Brandy. E io continuo a fumare, guardando la scena che non finisce. Due giovani argentini mi chiedono ‘ma questo non succede in Europa, vero?’ e sorrido a me stesso ricordando i treni francesi, i aeri irlandesi, le nave italiane, i autobus spagnoli. E quando la ira è arrivata a stremi inconcepibili, quando la gente grida che deve ritornare a Buenos Aires per prendere l’aereo, quando hanno insultato in tutti i accenti presenti, quando il caos è arrivato alla massima quota… la compagnia annuncia che la nave è stata riparata e che tutti coloro che vogliono ritornare in Argentina, possono. E tutti salgono. Io, fermo e con voce bassa tutto il tempo, continuando col mio zen, per una volta alzo la voce per dire ‘ma veramente saliamo nello stesso sarcofago marittimo?’, una donna uruguaiana che aveva rotto il cazzo per due ore gridando e lamentandosi mi dice ‘ma dai, smettila con questa negatività!’. E quindi salgo. E la nave parte. E dopo due ore e mezza di lamentazione, un’ora di ballare una salsa marittima, dopo un’ora e mezza di ritardo della partenza, dopo tutto quel casino che avevano creato fra tutti… salgono. E la nave parte. E la nave va.
Ed è così come funzionano le cose. Tante cose insieme, casino, ansie, allegria, però alla fine c’è qualcosa da raccontare.
Questo post è stato scritto dall’attore Pablo Lechuga
Pablo Lechuga (Barcelona, 1990). Consegue la Laurea in Comunicazione Audiovisiva nel 2012 presso l’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona, partecipando al progetto Erasmus per un anno presso l’Università degli Studi Roma Tre. Lo stesso anno studia presso la IUGTE e lavora nel teatro Anton Checkhov di Taganrog (Russia) con Sergei Ostrenko per lo spettacolo di teatro fisicoСТРАСТИ ПО РОМЕО.like/unlike. Nel 2013, a Mosca, dopo aver terminato la VII Scuola Internazionale di Teatro della Federazione Russa presenta la performance stradale LOW-TECH con la regia di Dima Melkin. Nel 2014 participa a Parigi all’École Philippe Gaulier ad un corso intensivo di clownerie. Nell’ultimo anno, con la produzione Le Fantôme de l’Opéra per il Teatre del Repartidor, prende parte alla tournée spagnola assieme alla compagnia La Petite Cómedie Française. Parla il francese, l’italiano, l’inglese, il catalano e lo spagnolo (di cui è diplomato come professore); attualmente sta conseguendo il Master in Formazione ed Investigazione Letteraria e Teatrale nel Contesto Europeo presso la Universidad Nacional de Estudios a Distancia; ha lavorato nella Ràdio Alternativa Barcelona e collabora con il collettivo Gilles de Rai.