Nidal ci accoglie all’ aeroporto di Tunisi con un cartello: “Festival Méditerranéen du théâtre pour Enfants”. Un ragazzo sui venti anni, viso color cioccolatino, occhi neri, abbigliamento occidentale, parla arabo, inglese, francese e mastica l’italiano.
Le valigie piene degli abiti di scena, un po’ qua e un po’ là, il telo rosso di Fernando, i tamburi per la parata, il cilindro, le maschere ed i burattini. Con l’entusiasmo tipico di ogni partenza e l’incanto del teatro sulle spalle. Parola magica che fa imbarcare la Zeza, il nostro mega pupazzo di cartapesta, come “strumento musicale” senza alcun supplemento, che ci spalanca le porte di un Paese al limite.
Il paesaggio che si vede dal nostro pulmino polveroso, sgangherato ma prezioso è desolante e affascinante allo stesso tempo: palazzi scrostati si alternano a moschee con i prorompenti e curati minareti, ragazzi che rovistano nei cumuli di immondizia sulle strade a professionisti con la cartellina in mano, ragazze con il velo a donne con la giacca di pelle, distese salmastre a palazzoni industriali.
A Ben Arous assistiamo allo spettacolo teatrale di una compagnia algerina. I bambini ridono, rispondono alle domande degli attori, alzano la mano, partecipano, assistono attenti, sembra di essere nella nostra “Famiglie a teatro”. I bambini sono bambini sempre, dovunque.
Re-incontriamo Daker, il nostro amico tunisino, direttore della regione di Ben Arous, già ospite nella scorsa estate del nostro festival dei Teatri d’arte Mediterranei. Un re-incontro affettuoso, riconoscente. Abbracci, saluti sentiti. La metà degli ospiti e delle compagnie ha rinunciato a partecipare per paura, per non rischiare, per prudenza. Un’accoglienza commossa degli amici italiani per una presenza sperata fino in fondo. Oggi più che mai hanno bisogno di noi. E domani si inizia, sul serio.