L’attesa

Words were exchanged , Kate T. Parker
Words were exchanged , Kate T. Parker

Quando ero piccola attendevo con ansia che finisse la famosissima “cuntrora”, cioè le prime ore del pomeriggio. Il momento del riposino pomeridiano. Non vedevo l’ora finisse perché volevo scendere nel giardino del parco a giocare con i miei amichetti. Principalmente ci si rincorreva, si andava in bici, si raccoglievano pietre, si giocava a calcio. Si facevano giochi semplici. Niente solitudine da Ipad.

Esattamente andava così. Profumo d’estate. Casa di mia nonna, cameretta con tre lettini. Copriletto ricamato bianco, tapparelle semi abbassate per impedire al caldo di entrare. Dai fori delle finestre precisi raggi di sole tagliavano un po’ il pavimento della stanza, un po’ le pareti, un po’ il comò. Figurine di santini, vecchie foto ingiallite. Un po’ la faccia mia e un po’ delle mie cugine. Noi eravamo “costrette” in quel “rettangolo” ad attendere che si facesse ora per scendere finalmente a giocare. E l’ora giusta la decidevano le voci che dal giardino iniziavano a farsi sentire. E allora un po’ si chiudevano gli occhi, un po’ si aveva caldo, si giocava con le bambole (che tuttavia ho sempre odiato) o a fare le parrucchiere.

Io attendevo la prima vocina: ero pronta. Sul chi va là. Contenta, ansiosa. Un nuovo pomeriggio mi aspettava. “Shhh. Una vocina. È ora.” Rotolavo giù dal letto. Attraversavo il fresco corridoio che mi guidava verso la porta. Prendevo le chiavi del sotto scala. Salutavo la nonna. La porta di casa si chiudeva. Si scendevano le scale in religioso silenzio. Sottoscala: puzzo di chiuso, di bottiglie di salsa, di scatoloni impolverati, di vino. La mia bici era li. Ed io ero pronta a cadere, a piangere, a ridere con lei e con i miei amici. Ad essere me. Chiusa la porta c’era tutta ombra, e fresco e quasi freddo. Io e la mia bici ci avvicinavamo al portone. Aprivo. La luce mi investiva, quasi rendendomi cieca. Che pomeriggio mi aspettava? Ero pronta.

L’attesa. Eh. Attesa/limite, limite/attesa. Attesa del limite o limite d’attesa? Il limite e l’attesa miei compagni. Come quando ho conosciuto il teatro. Come quando le quinte mi divoravano l’anima prima di entrare in scena. Come quando per la prima volta ho superato i cancelli e ho attraversato il lungo corridoio del carcere per cominciare quest’avventura. Cancelli e corridoi che mi facevano paura. O forse era solo l’attesa? O solo l’ansia. Tutto questo mi separava dai “ ragazzi ”. L’iter è questo.  Consegno i documenti, prendo una chiave per lasciare fuori tutto quello che non serve, tranne le sigarette. Quelle sono con me. Prendo il cartellino e lo attacco al cappotto. Il cartellino diventa un’uniforme. Io divento un’altra cosa, più pesante. Più fisica. Una cosa fatta di attesa. Arrivo al primo cancello. Firmo il registro. Passo i controlli. Mi si apre il secondo cancello. Poi il terzo. “Buongiorno” io alla guardia. “Buongiorno, buongiorno” la guardia a me. Quarto cancello. Si apre il lungo corridoio. Il corridoio freddo. Quel corridoio l’ho sempre visto come un mondo a parte. Fatto di una temperatura che il mio corpo non ha mai sentito. Intanto l’attesa me la porto addosso.

E mentre ascolto i miei passi e quelli dei miei colleghi, i raggi di sole, mi colpiscono di taglio, e le ombre si lasciano alla mia sinistra. Mi tagliano la faccia come in quei pomeriggi d’attesa della mia infanzia. Il quinto cancello è “il” cancello. Quello che mi porta alla palestra, una volta aperto. La palestra e il suo puzzo di chiuso. I primi tempi ci sembrava di sentire puzza di tartufo. Poi il naso si è abituato e non ci abbiamo fatto più caso.  La palestra fresca e poi fredda. Ampia. I ragazzi arrivano. L’attesa diventa quasi ansia che mi impedisce di girarmi intorno. Di guardare. E poi basta. Mi giro e guardo. Dalla porta arriva il sole forte che crea un corridoio naturale. Sagome si avvicinano spezzando ogni ansia. Vocine e vocioni prima lontani poi vicini poi, quasi ad un passo da me. “E’ ora”. Che pomeriggio mi aspettava? Ero pronta. I mie occhi pronti, la mia voglia di lavorare pronta. E quell’uniforme non la sentivo più, e il cartellino non pesava più. E finalmente ero me. Non ero più così pesante. E l’ansia andava via. E restava solo la mia compagna. L’attesa di scendere a giocare.