Il 14 dicembre 2015 la III C.A.T. e la IV C.A.T. e la III S.I.A. e la IV S.I.A. dell’Istituto di Istruzione Superiore “Carafa-Giustiniani” hanno assistito allo spettacolo dei detenuti della Casa Circondariale di Benevento, organizzato nell’ambito del progetto LIMITI.
Non voglio fare nessun altro preambolo, ma dare immediatamente voce ai miei alunni:
“Carcere”: una parola che al sol pensiero fa rabbrividire, simbolo di cattiveria, di errori, di disumanità. Prima di varcare il cancello ho provato un po’ di soggezione al pensiero di entrare in un luogo che, per ovvie ragioni, non gode di buona fama. Tuttavia, non ho avuto paura, forse perché è prevalsa la curiosità di vedere con i miei occhi ciò di cui avevo solo sentito parlare alla televisione o visto in qualche film. Pensandoci bene era un argomento che non avevo mai affrontato perché la consideravo una realtà talmente al di fuori della mia quotidianità…Dopo quest’esperienza, invece, ne ho parlato un po’ con tutti quelli che conosco e ho riscontrato delle opinioni favorevoli riguardo al progetto a cui hanno partecipato i detenuti (Limiti).
Durante il viaggio mentre osservavamo i danni dell’alluvione del 15 ottobre scorso, purtroppo ancora visibili, eravamo ognuno assorto nei propri pensieri.
Lungo tutto il tragitto mi sono chiesta cosa avrei visto in quel carcere. Non so neanche io bene cosa mi aspettavo; nei film i detenuti sono sempre strani, aggressivi, cattivi, con pensieri contorti. Sinceramente mi aspettavo come minimo una rissa, la polizia che cercava di tenerli a bada con i manganelli, un tentativo violento di evasione…ma ho capito che stavo viaggiando troppo con la fantasia.
Una volta arrivati, la fitta nebbia beneventana ha fatto salire l’ansia e l’angoscia nell’animo di tutti i presenti perché ha reso quel posto ancora più inquietante di quello che è.
Avevo già visto quel carcere esternamente, ma ieri ho potuto “vedere” cose che al di fuori non possono essere percepite.
Dopo aver superato tutti i controlli possibili e immaginabili e aver lasciato tutti i nostri effetti personali: cellulari, accendini, sigarette, bottigliette d’acqua ci siamo diretti verso la palestra dove si sarebbe svolto lo spettacolo.
Lungo il tragitto mi hanno colpito molto gli alti cancelli e i muri di cemento che circondano la struttura carceraria, perché ho provato e capito come può essere brutto restare separati dal mondo esterno. Il campo di calcio vuoto, riempito solo dalla foschia, dava l’idea di un campo di concentramento.
L’odore di chiuso misto all’odore di gomma degli stivali della polizia penitenziaria, il freddo, le stanze delle perquisizioni, mi hanno dato un senso di tristezza, in parte sparita all’interno dell’aula-teatro in cui è stata sostituita dalla felicità trasmessa dai sorrisi comparsi sul viso dei detenuti quando ci hanno visto arrivare.
Mi sono reso conto della drammaticità che comporta vivere in una cella, in un luogo dove manca tutto, stare lì per giorni o per anni senza la cosa più bella che si possa avere: LA LIBERTÀ. Un luogo dove anche il sole arriva attraverso le sbarre.
Nel “cuore” del carcere mi sono sentito anche io un detenuto, osservato e controllato dalla polizia e dalle telecamere.
Eppure loro sorridono! Questo mi ha stupito più di tutto, oltre al fatto che davanti a noi c’erano degli uomini assolutamente normali in preda alla classica emozione da palcoscenico.
Lo spettacolo è iniziato in modo del tutto stravagante, con una sorta di effetto sorpresa che li vedeva preparare la scena come se non ci fosse ancora il pubblico. I detenuti sembravano litigare e noi, tutti impauriti, ci guardavamo attorno e non capivamo perché nessuna guardia intervenisse. Ci siamo poi resi conto che si trattava di un inizio tipo Sei personaggi in cerca d’autore. Lo spettacolo ha poi raccontato la vita di alcuni personaggi ai margini della società, nella Napoli del primo Novecento. Si sono alternati momenti di risate a forti emozioni. Non sembrava che recitassero un copione, erano loro stessi con tutto il cuore. È stata un’emozione stupenda, sono stati bravissimi, talmente bravi che non sembra possibile che delle persone capaci di mettere su uno spettacolo del genere siano anche capaci di delinquere.
Con un misto di emozione, curiosità, ansia, senso di smarrimento e paura, ho sentito il bisogno di confrontarmi proprio con loro, per capire cosa li ha spinti a commettere determinate azioni e soprattutto se hanno accettato il fatto di essere stati puniti.
Mi sembrava già di conoscerli molti di loro perché li avevo visti nelle interviste video.
Loro anche erano molto emozionati perché hanno visto “’a gent’ e’ for”.
Abbiamo avuto modo di parlare con Antonio O ‘mericano. Forse non è il sogno di tutti conoscere un detenuto, ma è un’esperienza che ti segna particolarmente. Le sue parole mi hanno colpito molto.
Mi ha molto emozionato la sua risposta ad una mia domanda sulla sua famiglia. Ci ha raccontato di aver capito che nella vita non sono importanti i soldi, le belle macchine e le belle donne, ma che è molto meglio avere un solo euro in tasca e il sorriso/calore della propria famiglia. Inoltre ci ha dato modo di capire quanto sia brutto il carcere, lo ha paragonato ad una brutta malattia che ti deteriora sia internamente che esteticamente. Anche se il carcere è stato anche un bene: gli ha permesso, infatti, di interrompere dei rapporti “tossici”.
Le sue parole mi hanno fatto molto riflettere sul valore della famiglia, sul ruolo fondamentale che possono avere i nostri genitori che molto probabilmente ci proteggeranno ed aiuteranno fino all’esaurimento delle loro forze. Mi ha spinto a legarmi ancora di più ai miei genitori per cercare in loro un aiuto, per stare lontano dalla brutta malattia che è il carcere, dove perdi non solo la libertà ma anche la dignità, dove non sei più un essere umano ma un numero.
Alla fine dello spettacolo, i detenuti hanno letto una lettera in cui ringraziavano tutti i responsabili del progetto LIMITI. C’erano delle frasi molto toccanti.
Mi è venuta subito voglia di rincontrarli, un po’ per conoscere meglio la loro vita all’interno del carcere e soprattutto perché vorrei capire le loro scelte senza più pregiudizi.
Per loro fare questo spettacolo ha significato dimostrare che non sono poi tanto diversi da noi. Vedere nei loro occhi la felicità di aver portato a termine un obiettivo, la gioia di potersi rapportare con noi senza essere giudicati e anche fare una semplice foto con loro è stata un’emozione indescrivibile.
Devo ammettere che all’inizio non ero molto d’accordo con quello che si stava organizzando, erano persone che avevano fatto del male e forse non se lo meritavano tutto questo…invece ho capito che il teatro ha un ruolo molto importante all’interno del carcere.
Non bisogna avere paura né pregiudizi, sono solo persone che hanno bisogno di aiuto per poter andare avanti.
È stata una giornata stupenda, una giornata che difficilmente dimenticherò, che mi ha segnato molto.
Spero di vivere altre esperienze simili a questa, per ricevere altri insegnamenti ma anche perché quest’esperienza, nel mio piccolo, mi ha fatto sentire importante per loro.
Spero che presto possano sentire anche loro il profumo della libertà. Errare humanum est, tutti possono sbagliare, ma possono anche rimediare. È stata una lezione per tutti, soprattutto per noi giovani, una lezione di vita che invita a pensare prima di agire…
Ciò che mi sento di dire a questi detenuti è che ci può essere un futuro diverso anche per loro, che il male DEVE essere “ucciso” dal bene, e che il mondo è bello e li sta aspettando.
La IV C.A.T.: Lucrezia Biondino, Mara Colantone, Licia Conte, Mario Del Vecchio, Lorenzo Fappiano, Cristian Fasulo, Andrea Guarino, Giuseppe Ludovico, Domenico Maturo, Roberto Napolitano, Eugenio Pacelli, Carmen Pigna, Armando Renzi, Bartolo Riccardi, Giovanni Romano, Antonio Santillo, Elena Vaiano, Michael Denny Visco.